Finzioni pubblicitarie
“La pubblicità italiana è particolarmente arretrata, anche rispetto, ad esempio, al Sudamerica. È conservatrice, tradizionale, ha paura di rischiareâ€Â
La frase riportata in apertura - di Vanni Codeluppi, docente di sociologia dei consumi allo Iulm di Milano – ‘fotografa’ lo stato dell’arte della pubblicità italiana, piuttosto povera di idee, come testimoniato del resto dall’assenza dell’Italia dal palmares del Festival internazionale della pubblicità di Cannes;  una sintesi, questa di Codeluppi, che trova una motivazione in quanto affermato da Ugo Volli, professore di filosofia del linguaggio, e autore di ‘Semiotica della pubblicità ’ (Laterza, 2005):
“La pubblicità si rivolge alle masse, a milioni di persone per vendere loro milioni di articoli, non può essere troppo avanti o troppo stranaâ€.Â
In sintonia con tale analisi, ecco un’impietosa disamina della pubblicità italiana proposta da Anna Mannucci in uno speciale pubblicato da Slow Food, e consultabile integralmente all’indirizzo:Â
 http://chiacchieredivinoecucina.blogspot.com/Â
“In generale, le pubblicità alimentari giocano molto sugli stereotipi familiari, la mamma contenta di stare legata ai fornelli e fondamentalmente casalinga, anche se, purtroppo, in alcuni casi, deve lavorare, i bambini rompicoglioni ma inevitabilmente adorabili, il papà capofamiglia che esce e va nella giungla urbana a procurare il cibo e così via (ma, quanto a luoghi comuni, i peggiori sono i detersivi e le sostanze varie per pulire la casa).(…) E, a proposito della rappresentazione della donna, è da notare l’uso e l’abuso, in Italia, del corpo femminile seminudo e ammiccante in ogni tipo di pubblicità , non solo cosmetici e biancheria intima, ma anche e soprattutto telefonini, automobili, colle (sì, prodotti per incollare) e quant’altro.Forse più grave, come impatto sociale negativo, il perenne contrasto tra la golosità femminile, la lussuria con cui le donne azzannano e gustano biscotti, spaghetti, gelati, cioccolato, e la drammatica necessità di essere magre. Non è salutismo, è repressione, colpevolizzazione delle donne e dei loro appetiti. Un ennesimo incentivo all’anoressia e ai disturbi alimentari (…)â€.Â
Sempre nello speciale di Slow Food citato, questo interessante, quanto illuminante contributo di Enrico Remmert:Â
“Anni fa, quando ancora lavoravo in pubblicità , mi capitò un episodio singolare. Tra i nostri clienti c’era una nota marca di birra che ci aveva chiesto di realizzare una serie di still-life del prodotto, da utilizzare per brochure e depliantistica varia. Il giorno dello shooting (quello in cui si scatta, per intenderci) avevamo predisposto nel piccolo teatro di posa tutte le luci, posizionato vari tipi di boccali, tovaglie, sfondi, spruzzatori d’acqua per rendere al meglio la condensa sul bicchiere, e così via. Il responsabile marketing del prodotto arrivò con alcune casse di birra, in compagnia di uno strano ometto che comunicava con lui solo in un terribile inglese dal marcato accento tedesco. Insieme al fotografo e alla sua assistente cominciammo a preparare il primo boccale, stando bene attenti a formare una bella schiuma in superficie. Ma, in pochi minuti, neanche il tempo di sistemare le luci, la schiuma era completamente sparita.Fu allora che si fece avanti l’ometto: prese uno dei nostri boccali, una bottiglia di birra del cliente e poi aprì una valigetta di alluminio non molto più grande di un beauty-case. Fu una sorpresa per noi vedere cosa conteneva: pillole. Pillole di varie dimensioni e colori: capsule rosa, pasticche gialle, compresse blu, pastiglie viola. L’uomo non era uscito dal set di Paura e delirio a Las Vegas, come temetti all’inizio: si trattava semplicemente di un esperto di schiume. Fece qualche esperimento alchemico finché non trovò la pastiglia giusta e creò una bella schiuma sulla cima del boccale, soffice e densa – ma soprattutto duratura – che in poche ore ci permise di portare a casa una quantità di scatti sufficiente ad accontentare il cliente per qualche lustro. In una pausa parlai all’ometto, che mi spiegò con un certo orgoglio che quello – creatore di schiume – era il suo mestiere e che lavorava tantissimo, richiamato qua è là per mezza Europa da fotografi e registi alle prese con birre, panne spray, mousse, creme e chi più ne ha più ne metta. Ancora oggi penso sempre a quell’uomo quando apro la dispensa o il frigo e noto, sulla scatola del cibo che sto per assaggiare, una foto perfetta del prodotto finito: un gelato cremoso con sopra le ciliegie, lo sciroppo e una corona di panna. Oppure una pizza con la mozzarella candida come neve e il pomodoro di un rosso sgargiante. O ancora, un budino con riflessi di caramello che sembrano dipinti da Caravaggio. Allora guardo con più attenzione e noto che – in genere in piccolo, in verticale e in modo il più possibile nascosto – c’è sempre una scritta. Poche parole che recitano, secondo i casi, un quasi innocuo “Le immagini riportate sulla confezione sono semplicemente un suggerimento di presentazioneâ€, oppure un più ambiguo “L’immagine non è rappresentativa del prodotto finitoâ€, per finire con un chiarissimo “La foto è un’elaborazione graficaâ€. È questo il motivo per cui le immagini del cibo nelle confezioni che compriamo e nelle pubblicità sono così belle? È per questo che la lattuga sembra straordinariamente croccante e di un verde meraviglioso? È per questo che i fagioli sono perfetti, i gelati cremosi, le torte soffici e leggere? È per questo che il caldo delle lampade di chi li fotografa o li riprende con una telecamera sembra non fare danni? Già , è proprio per questo: perché, nella maggior parte dei casi, si tratta di prodotti finti, non edibili. I gelati con sciroppo sono spesso realizzati con palline di lardo o purè di patate decorati con oli sintetici o qualche altra diavoleria molto tossica ma bella a vedersi. Il vapore che scaturisce dai cibi caldi è quasi sempre fumo di sigaretta e i cubetti di ghiaccio sono in plexiglass o acrilico. La verdura è di plastica, la frutta di silicone, la pasta di cera.(…)In Italia il problema è lo stesso che nel resto del mondo. E cioè che i nostri sensi vista-olfatto-gusto-tatto, sollecitati dal vivo, su una bella bistecca non agiscono allo stesso modo su una sua immagine. Perciò, dato per assodato che tutti noi mangiamo per prima cosa con gli occhi, i fotografi e i registi devono fare il possibile per rendere il cibo al massimo grado appetitoso e “tattile†anche sui loro media bidimensionali, lottando oltretutto in studio contro una caratteristica tipica di tutti i cibi: il fatto che si deteriorino, spesso piuttosto velocemente. In questa sfida comunicativa, sull’esempio americano, anche da noi sono state introdotte nuove figure professionali a disposizione dei fotografi e dei registi, come l’home-economist e il food-stylist. Si tratta di esperti in grado di cucinare, disporre e guarnire i cibi, ma non solo: il loro vero talento sta nella bravura nell’utilizzare pennelli, lacche, vernici e spray, con la perizia di esperti truccatori, in modo da ottenere cibi straordinariamente appetibili, ma non certo mangiabili. A Milano lavorano almeno una ventina di specialisti. I loro trucchi? Ci sono vari modi per ottenere un piatto dal look perfetto (e immangiabile): se si deve riprendere un tacchino, ad esempio, esso dovrà essere arrostito solo parzialmente poiché il calore del forno potrebbe staccare la carne dalla pelle rovinando l’effetto finale. Un consiglio da food-stylist è poi quello di aggiungere dell’angostura per brunire perfettamente la pelle dell’animale. Se il vostro soggetto è invece un sandwich, state bene attenti alla lattuga, si comporta in modo bizzarro sotto i riflettori, perciò è meglio utilizzare quella di plastica. Quanto ai cereali a bagno nel latte, difficilmente si tratta di vero latte: un po’ di colla vinilica evita di ridurre tutto in pappa in una manciata di minuti. Se, invece, avete a che fare con la frutta, be’, finalmente potete stare tranquilli: nella maggior parte dei casi è autentica. L’unico particolare è che la si vernicia per rendere i colori più lucidi e brillanti. Alcuni usano anche silicone liquido, cera o idrorepellenti per le carrozzerie delle auto. Il formaggio e i salumi sono un altro problema: in genere sono spruzzati con antitraspiranti per evitare la loro naturale traspirazione sotto le luci dello studio.Insomma, per ogni cibo da immortalare, che sia per un packaging o per una pubblicità o per un libro di cucina, esiste un trucco. Perciò, nella quasi totalità dei casi, quello che vediamo è finto. Come in tanti altri aspetti del mondo attuale, anche il cibo sembra avere perso la sua funzione principale: nella civiltà dell’immagine non importa che sia commestibile, ma che sia ben raccontato, rappresentato e spettacolarizzato. Ci sarebbe poi da aggiungere che, in moltissimi casi, la fotografia finale del cibo finto viene ulteriormente modificata attraverso l’utilizzo di sofware di foto-ritocco (Photoshop e affini) che alterano ancora colori e luci e rendono il risultato finale artificialmente perfetto. Ma, d’altronde, questo succede anche con la maggior parte delle top model del mondo. E loro non sono mica di plastica? O no?â€Â
Per la vendita di cibi finti visionare il sito www.displayit-info.comÂ
E sempre a proposito di ‘falsi’, vi segnalo infine Le avventure di Pinocchio, altro speciale di Slow Food, a firma di Roberto
Attilio Lauria
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Posted by admin on Ottobre 7th, 2007 filed in Spunti e Spuntini |