di Fulvio Merlak
Meta preferita, fin dal Cinquecento, di un gran numero di stranieri, l’Italia occupa da sempre un ruolo di primo piano nell’immaginario collettivo. Checché se ne dica, la nostra penisola è da secoli la destinazione più ambita degli appassionati del bello e dei cultori dell’arte. Nondimeno, nel tempo si sono formati e consolidati anche certi luoghi comuni, per cui l’immagine del Belpaese non è solamente quella della nazione che, nella lista dei patrimoni dell’umanità, detiene il maggior numero di siti riconosciuti dall’Unesco, ma anche quella del paese della “dolce vita”, della passione per la buona cucina, del bel canto, della moda, nonché dell’inaffidabilità, degli scandali politici e della criminalità organizzata. Un quadro a tinte non propriamente brillanti, con molte luci ma anche con parecchie ombre. Eppure, da sempre, gli stranieri amano l’Italia, paese indubbiamente dotato di una grande capacità di attrazione, oggetto di un interesse universale che ha radici lontane e che, inevitabilmente, ci riporta con la mente ai viaggi d’illustri predecessori, quali Michel Eyquem de Montaigne, scrittore francese abile nel tratteggiare (nel 1581) l’atmosfera di Roma, «una città tutta corte e nobiltà, dove ciascuno partecipa come può all’ozio ecclesiastico. », oppure Johann Wolfgang Von Goethe, poeta, critico d’arte, filosofo, che nel 1787 scrisse «Conosci la terra dei limoni in fiore, / dove le arance d’oro splendono tra le foglie scure, / dal cielo azzurro spira un mite vento, / quieto sta il mirto e l’alloro è eccelso, / la conosci forse? / Laggiù, laggiù io / andare vorrei con te, o amato mio!», o ancora lo scrittore francese Marie-Henri Beyle, senz’altro più conosciuto con lo pseudonimo di Stendhal, che, facendo riferimento al nostro paese, affermò «felicità sublime il viverci.» Ed è curioso che proprio Goethe, il grande intellettuale, considerato dai suoi stessi compatrioti il più importante uomo di lettere tedesco di tutti i tempi, durante il suo primo, lunghissimo viaggio in Italia (durato quasi due anni, dal mese di settembre 1786 a quello di giugno del 1788), sentì l’esigenza di ritrarre la “sua” amata Italia in quasi novecento disegni di ottima fattura; quasi a testimoniare l’opportunità di accostare note e appunti (che, trent’anni dopo, avrebbe riadattato in senso letterale nel “Viaggio in Italia”) a schizzi e disegni, talvolta molto raffinati. «Questo è un felicissimo soggiorno; da mane a sera disegno, dipingo, ombreggio, incollo, insomma, mi do da fare ex professo e come artigiano e come artista.» Chissà come avrebbe agito il genio di Francoforte se avesse potuto usufruire dei vantaggi indotti, solo cinquant’anni più tardi, dall’invenzione della fotografia. E, ovviamente, la fotografia non poteva sottrarsi alla tradizione delle visioni di scrittori, pittori e artisti stranieri che hanno “perpetuato” in vario modo la nostra penisola. «Perché – scrive Giovanna Calvenzi – l’Italia è forse il paese più fotografato al mondo, percorso, dal dopoguerra ad oggi, da fotogiornalisti, amatori, ricercatori, autori di immagini e di storie, attenti ai luoghi, alle atmosfere, ai comportamenti, al mutare di tempi e di costumi, alle vestigia del passato e alle trasformazioni del presente.» L’esperienza di Leonard Freed è forse quella più rispondente alle considerazioni espresse dalla Calvenzi. Ed è quantomeno singolare che l’interesse dell’autore newyorkese per l’Italia non si risolva in un’attenzione di tipo prettamente professionale. A poco a poco, la sua diventa una vera e propria storia d’amore, un legame confermato da oltre quarantacinque viaggi, dilazionati nell’arco di cinquant’anni, una passione durata per tutta la vita. Nondimeno, a ben vedere, la ricerca “italiana” di Freed non è indirizzata tanto verso il paesaggio, l’architettura o l’arte, quanto verso gli Italiani. La sua è un’indagine di tipo antropologico etnografico, un’esplorazione attenta e scrupolosa, illustrata dalle sue stesse parole: «Sono come uno studente curioso, che vuole imparare. Per poter fotografare devi prima avere un’opinione, devi prendere una decisione. Poi quando stai fotografando, sei immerso nell’esperienza, diventi parte di ciò che stai fotografando. Devi immedesimarti nella psicologia di chi stai per fotografare, pensare ciò che lui pensa, essere sempre molto amichevole e neutrale.» Ciò che avvince Freed nel corso delle sue tante peregrinazioni nel Belpaese non è il fitto intreccio di beni architettonici, paesaggistici e artistici, ma bensì l’italianità, ossia quell’insieme eterogeneo e variegato di caratteri che distinguono la popolazione dello stivale rendendola unica, ovvero la cordialità e la genuinità della gente comune, la manifestazione spontanea dei vizi e della saggezza di una comunità. Essere Italiani significa possedere, nel bene e nel male, delle attitudini comportamentali diverse da quelle di altre collettività. E il lavoro di Freed lo rileva, con garbo, con intima partecipazione e talvolta con un pizzico d’ironia. La contestualizzazione dei soggetti costituisce una delle connotazioni imprescindibili del suo modo di fare fotografia. Personaggi e ambiente circostante sembrano influenzarsi reciprocamente in un gioco di rimandi simbolici di grande fascino e di complessi significati allegorici. Ma quello di Leonard Freed non è l’unico sguardo appassionato di un fotografo straniero in Italia. La mostra ospitata negli spazi del Centro Italiano della Fotografia d’Autore ci propone le visioni di altri dodici autori (e che autori!). Si tratta di Bruno Barbey, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Dimitri Kessel, William Klein, Herbert List, Thomas McAvoy, Carl Mydans, Walter Sanders, Gotthard Schuh, David Seymour e Paul Strand. Tutti, pur nell’evidente diversità dei tratti stilistici, formali e lessicali, risultano ugualmente interessati a rappresentare la realtà italiana e le sue contraddizioni in un quadro d’assieme sintomatico e suggestivo. Un quadro che ci riconduce ancora una volta a quel concetto di italianità che, lungi dal configurare un mito, rappresenta pur sempre la nostra identità e stabilisce precisi vincoli di appartenenza. «Cara Italia, perché giusto o sbagliato che sia questo è il mio paese con le sue grandi qualità ed i suoi grandi difetti.» (Enzo Biagi)