Dentro la pandemia
di Claudio Pastrone
Lo pensavo anche prima di quel tragico mese di febbraio 2020, in cui il focolaio di COVID-19 rilevato a Codogno ci sbatteva in faccia la drammatica situazione che ci avrebbe accompagnato da quel momento in avanti. Lo pensavo, e lo penso ancora, che la mia generazione e le generazioni successive, nate in Europa Occidentale dopo la Seconda guerra mondiale, siano state in generale fortunate. Quella di mio padre, e ancor più quella di mio nonno, hanno subito l’orrore delle guerre. E se mio padre e mio nonno le hanno vissute in armi e, molto probabilmente, hanno ucciso e visto uccidere altri esseri umani per motivi che oggi ci paiono assurdi, anche i loro congiunti hanno sofferto privazioni e paure a causa dei bombardamenti o dei combattimenti vicino alla porta di casa. Questi pensieri riaffiorano ancora vividi, ma vacillano quando penso agli oltre tremilionicinquecentomila morti a livello planetario, ai quasi 130.000 morti in Italia e soprattutto ai parenti e agli amici che ci hanno lasciato a causa della pandemia.
Non serve ricordare che è da quando l’essere umano ha iniziato a organizzarsi in società e a creare nuclei di persone che convivono nello stesso spazio, che le malattie contagiose hanno assunto un ruolo particolare, trasformando le società in cui sono comparse e, molto probabilmente, cambiando o influenzando in modo decisivo il corso della storia. Gli effetti del COVID-19 hanno provocato uno choc a cui non eravamo preparati. E non mi riferisco solo ai morti, ma anche all’impatto che la pandemia ha avuto sulle nostre certezze, sulla vita di tutti i giorni. Quasi di colpo quelle che ritenevamo normalità e routine quotidiana sono state messe in discussione: il modo di lavorare, la socialità e i passatempi, la stabilità economica e perfino la vita familiare e gli affetti hanno subito mutazioni. Abbiamo dovuto in qualche modo rinunciare al consueto da una parte e subire delle privazioni dall’altra.
Tuttavia, tra le tante similitudini con le pandemie del passato, emergono sostanzialmente alcune differenze, non tanto sotto il profilo medico e della malattia vera e propria, ma per come questa è stata affrontata dalla gente comune. Per la prima volta nella storia dell’umanità, alla velocità e alla diffusione del contagio si è contrapposta la velocità e la diffusione dell’informazione, sia essa scientifica che sociale. La nascita stessa del progetto Cronache quaranteniche poco dopo la promulgazione dei primi decreti governativi per il contenimento e il controllo della pandemia, ha permesso di avere fin dall’inizio una rappresentazione dell’evento diversa da quella offerta dai media ufficiali. Alle scene delle bare che si accumulavano per la difficoltà di svolgere i funerali, degli ospedali e delle unità di rianimazione che non riuscivano ad accogliere i malati troppo numerosi, alle notizie sul numero degli infetti e dei morti, sulla diffusione su tutto il territorio nazionale della pandemia, si sono affiancate le immagini realizzate dalla gente che vive la pandemia. Una visione e una interpretazione del fenomeno non realizzata per informare, ma per raccontare la propria esperienza. Una rappresentazione interna, realizzata dai protagonisti dell’evento. L’idea quindi di stimolare le persone a rappresentare ciò che le circonda, sia dal punto di vista documentario, che da quello intimo e personale, fino ad arrivare alla creazione concettuale, è la forza di questo, come degli altri grandi progetti nazionali della FIAF. Scorrendo le pagine del numero di Riflessioni e girovagando per le celle e il corridoio del Centro Italiano della Fotografia d’Autore riviviamo le nostre emozioni, le nostre paure, le privazioni, a cui siamo stati costretti, i cambiamenti improvvisi del nostro vivere quotidiano, ma anche la nostra volontà e capacità di reagire, una rinnovata speranza in un futuro migliore.