Io randagio
di Attilio Lauria
È la foto segnaletica, così densa di implicazioni da essere oggetto di un noto testo di Ando Gilardi, ad essere utilizzata da Silvio Canini per raccontare una storia alla Gabanelli maniera, di quelle sul “come è andata a finire”. E in questo caso, grazie a Stefano e Valeria, è andata bene. Già, perché il destino dei cani randagi può essere diverso, in una sorta di cinica roulette quotidiana, a seconda che a trovarli siano per primi gli accalappiacani, o quei ‘matti’ col demone dell’etica creaturale, intenzionati a sottrarli all’oblio da 41 bis - ma senza collegio difensivo, e senza tre gradi di giudizio - del canile. E poco importa in questo racconto che la foto segnaletica sia una strada retoricamente abusata; conta il valore di verità di quella metafora, il racconto di destini che s’incrociano, e che valgono a denunciare, per contro, tutte le altre storie invisibili di reclusione routinaria fatte di abbandono e maltrattamento. Linguisticamente vicino alla comunicazione da campagna/booklet per il fundrising, “Io randagio” si presenta come un articolato atto di significazione, tra le cui dinamiche la fotografia è in realtà solo uno dei linguaggi - insieme a quello testuale, e a quello grafico delle impronte - che compongono l’immagine finale. E sebbene l’io narrante abbandoni con un mutamento di prospettiva la regola di univocità, la combinazione dei tre diversi linguaggi raggiunge comunque con efficacia l’obiettivo di conferire a questi ex randagi un’identità, affiancando alla foto segnaletica il segno più inequivocabile dell’identità, quelle impronte raffigurate con un gusto calligrafico vicino ai sinogrammi orientali. È dunque grazie a questa operazione di conferimento d’identità, realizzata con il concorso della fotografia, che l’Autore strappa i protagonisti di questo racconto all’anonimato del genere indistinto dei randagi, avvicinandoli così alla nostra umanità di spettatori, e parlando, attraverso le loro vicende, della storia di ‘solidarietà’ di Stefano e Valeria.
Biografia
Silvio Canini è un artista poliedrico. Esplora con grande facilità e freschezza un’ampia gamma di soggetti. Attento osservatore, riesce a trasformare un reportage in qualcosa che supera il tipico approccio di questo mezzo espressivo. È un artista in grado di contaminare i suoi lavori con linguaggi stilistici differenti che, come per incanto, si trasformano in opere suggestive e sempre coerenti. Nel 1998 pubblica “We are Open” (Premio Città di Prato e miglior libro al Foto Padova 1999). Nel 2000 pubblica “Periferie Cangianti” una ricerca sul territorio di Bellaria Igea Marina. Venditori d’ombra pubblicato nel 2002 racconta in modo originale la spiaggia della provincia di Rimini. Mare del silenzio (2005) è stato pubblicato nel febbraio del 2006 nell’allegato “Ventiquattro” del quotidiano Il Sole 24 ore. Nel 2011 pubblica "RimiNy" un lavoro su Rimini e NYC. Le sue opere sono state esposte in Italia e all’estero con grande favore di critica e di pubblico e hanno raccolto numerosi premi. Tra i più significativi, si ricordano: la menzione d’onore alla 24th Biennale Photos Monochrome in Cina, e il XX Premio Internazionale Guglielmo Marconi per l’arte elettronica, in compagnia di Emilio Vedova per la pittura e Arnaldo Pomodoro per la scultura. Egli esplora con efficacia anche il video, ottenendo importanti riconoscimenti al Bellaria Film Festival con Hypno-bici. Sue fotografie sono state utilizzate per le scenografie della trasmissione Annozero di Michele Santoro. Dal 2008 è proprietario della “36° Spazio Gallery” di Bellaria.