Vite strappate
di Luisa Bondoni
“La macchina fotografica è l’occhio della storia” diceva Mathew B. Brady (1822 –1896), il famoso fotografo della Guerra Civile Americana.
Nella seconda metà dell’Ottocento la Storia ad un certo punto diventò più vera quando a supportarla arrivò l’immagine fotografica.
Quella storia che per secoli si era trasmessa attraverso la parola e attraverso la rappresentazione pittorica, dal 1839 trovò la sua testimonianza visibile reale, tanto da pensare che se non ci fossero state fotografie, forse quell’evento poteva non essere mai accaduto.
Vite strappate non è altro che un brano della nostra storia tolto dall’oblio, un tassello mancante che ritorna alla luce attraverso il progetto dell’autore.
È un recupero della memoria storica che trova forma in immagini reali ed irreali, presenti e passate, e comunque proiettate verso il futuro.
Il bianco e nero si mescola al colore, la doppia esposizione si intreccia a paesaggi onirici e nebulosi.
Le parole per troppo tempo taciute trovano spazio e si impongono con la scrittura, si alternano agli oggetti, un proiettile, un coltello, che, immobili, asettici, come su un tavolo operatorio, urlano in modo potente lo strazio ed il dolore.
Quasi un’operazione surrealista di accostamento di immagini, in apparenza slegate, ma che trovano senso nel susseguirsi della sequenza: il paesaggio ci riporta dove i fatti sono accaduti, lo percepiamo come un luogo fisico e nello stesso tempo della memoria, leggendo i frammenti di racconti stiamo ascoltando la voce dei protagonisti, la loro storia e la colleghiamo agli oggetti che assumono in questo modo una forte carica simbolica.
Ogni fotografia si lega alla successiva in un’incalzante crescita di emozione e coinvolgimento; ripensiamo alla tragedia accaduta, rimasta nel silenzio per troppo tempo, la scandagliamo e la riviviamo attraverso delle fotografie allegoriche che hanno il potere della rievocazione e della sintesi.
Le fotografie storiche rivivono nel presente e con esso si fondono, tornano a parlare un linguaggio nuovo che si spinge oltre l’apparenza per scavare in profondita` nella memoria collettiva e storica.
Le fotografie raccontano una storia ben precisa, quella dei goumiers e delle loro vittime, ma portano ad una osservazione sulla contemporaneità, portano ad una riflessione sul tempo presente, sulla sua violenza, su tutto quello che ancora viene taciuto e nascosto, su tutto quello che avviene dietro a quella finestra sbarrata da cui entra una lieve fioca luce, come un messaggio di speranza.
Usate la verità come pregiudizio, aveva detto William Eugene Smith, quel fotografo che aveva legato il suo nome al saggio umanista, in cui l’uomo e le sue vicende erano al centro dei suoi reportage. Enrico Quattrini ci racconta la verità di un fatto accaduto utilizzando quel modo che piu` sembra lontano dalla documentazione vera e propria: la creazione artistica, il concatenarsi di immagini che solo nel loro susseguirsi riescono a scuotere le nostre coscienze e renderci consapevoli e critici.
Biografia
Inizia a fotografare nel 1990 con una reflex 35mm analogica, regalo di suo padre per i 18 anni. Da quel giorno non ha mai smesso di scattare, leggere e soprattutto studiare fotografia.
Ha lavorato per scuole e compagnie di danza, per le quali ha fotografato saggi e spettacoli teatrali.
Per oltre dieci anni si è occupato di fotografia sportiva, seguendo molti generi e collaborando con l’agenzia fotografica Sportiva CFP foto, per la quale ha fotografato partite di rugby a livello nazionale e internazionale.
Ha realizzato progetti fotografici per il Triathlon Forhans Team e per la squadra di Nuoto Paralimpica Ergo Svm.
Nel 2014 ha raggruppato tutte queste esperienze nel libro “Guida alla fotografia sportiva”.
Dal 2015 ha iniziato ad occuparsi principalmente di progetti fotografici di tipo reportagistico e documentaristico.
Raccontare con la macchina fotografica è diventata cosi` la sua unica strada.
È fondatore e presidente dell’Associazione Fotografica Camera Creativa.