Ho visto il suono di una tromba
di Luigi Erba
Astrazione, poetica dei luoghi, fondali ghirriani, queste sono le prime idee che balzano al cervello rivedendo le provinature stampate globalmente in formato similfrancobollo di Fabio Capaccioli, incontrato al portfolio dell’Ariosto in quel di Castelnuovo Garfagnana. Ma poi il suo titolo confonde ancora i pensieri che devono essere allineati, razionalizzati per scrivere su di lui. “Ho visto il suono di una tromba”. Ma tutto è presto fatto, dopo che lo sguardo ancora una volta esce dalla finestra del mio studio ad incontrare lo scenario di pioggia di questi mesi ed il silenzio che paradossalmente coincide con la patina mentale e leggera delle sue opere. Ma anche qui non è così: quel titolo è conglobante, come l’odore della pioggia. Quella di Capaccioli non è altro, come avviene nella contemporaneità, un modo di scrivere plurisensoriale; in realtà quelle foto emanano un suono, sono anche suono, come ad esempio, l’assenza di tattilità in un lavoro quasi antimaterico che parte però dalla materia stessa. La magia della fotografia, della visione, ma anche della memoria sogno di luoghi magari visti e ora delimitati dalla necessità del quadro della scrittura. La città è ripercorsa nei suoi angoli più nascosti e personali, direi fortemente decontestualizzata in una visione “periferica” dello sguardo, quella cioè che non attesta, non informa sullo spazio urbanistico. E’ ovviamente una visione interiore, razionalmente costruita nella dialettica del vuoto-pieno, del suono-silenzio che esalta quell’idea di frammento che è tipica della fotografia ma anche dell’astrazione. Il limite è provvisorio perché la realtà prosegue sempre al di fuori e anche nell’infinito mentale. L’autore tiene tutto sotto controllo, linee, colori in una tensione quasi morandiana. Ogni tanto si riconosce un’entità, una finestra, un tubo dell’acqua, una tettoia, ma questo è l’aspetto meno interessante del problema. E’ uno spazio senza tempo, l’essenza e la ragione del lavoro.
Biografia