Spine
Testo di Stefania Lasagni
La memoria di Zhanna è un malinconico mosaico di immagini, intessuto nei toni grigi e neri dei ricordi; cartoline e fotografie della sua infanzia, antiche icone, piccoli oggetti pregni di sentimenti, simboli tangibili di una vita passata, di un’identità radicata.
È il prezioso contenuto dell’unica valigia nella quale, prima di partire lasciandosi alle spalle la sua terra e le ombre della guerra, ha raccolto la sua vita, gli affetti, le tradizioni, il legame indissolubile con la propria cultura alla quale si è tenuta stretta come un naufrago alla tavola salvifica fino al confine polacco.
Ottanta anni ospitati in un bagaglio a mano.
Un progetto fotografico di ampio respiro, arricchito da preziosi innesti di miniature, intarsi di testi poetici, segni grafici e simboli legati a doppio filo alla cultura della terra di origine, l’Ucraina, che cattura l’essenza di questo allontanamento che è allo stesso tempo fisico ed intrinsecamente emozionale. Le immagini salvate dall’anziana esule riverberano in un controcanto intrecciandosi a quelle che l’autore ha raccolto nel tempo durante i suoi viaggi nel paese, evocando con delicatezza la quotidianità della vita prebellica. Le fotografie sono pregne di malinconia e rimpianto, ma anche di resilienza, orgoglio e rispetto profondo per la patria. Ogni scatto è un frammento di storia individuale che si fonde nel sospiro universale, come un eco di lontananza, di perdita. Le sfumature soffuse, le velature dei riflessi amplificano il senso di silenzio e nostalgia, rendendo il dolore dell’esilio palpabile e permeante. Come avvolte da una patina emotiva le immagini narrano di spose in abiti sontuosi abbracciate ai giovani mariti, di soldati in divisa, di ragazze che posano per le strade, di feste popolari e cimiteri, paesaggi nebbiosi e orgogliosi cosacchi seduti sulle panchine, come alieni in un tempo sospeso.
Il volto segnato dell’anziana si confronta con le sembianze austere della donna matura che è stata, i tratti invecchiati si rispecchiano, lo sguardo, un tempo fermo, oggi smarrito, pone mute domande. Alle visioni in bianco e nero si intervallano, come spine graffianti, metafore dolenti dai colori cupi, sanguigni, emotivamente disturbanti. Raffigurano punti di sutura sulle mani anziane, la copertina di tela di un vecchio passaporto, neve insanguinata da resti di carne apparentemente abbandonati su cui banchettano indisturbati dei piccioni, una matrioska spezzata che sembra aver seminato le proprie figlie nei crepacci neri di un legno bruciato. La storia insegna che il popolo ucraino è stato capace di superare lo sterminio. Capace di rinascere da un seme. Di essere una fenice collettiva, una colomba che riprende il volo dopo la battaglia. Come creato dalla terra e dal fuoco mai annientato, ancora indomito.
Questo progetto non si pone come mera documentazione visiva, quanto più come esplorazione fortemente emotiva attraverso i simboli legati alla memoria e all’identità, riflettendo sulla resilienza di chi, seppur fragile, continua a raccontare la propria esistenza.