Simona e le stelle cadenti
Testo di Daniela Sidari
Definiamo vita quello spazio temporale fra l’inizio e la fine di un essere vivente. Si nasce, si cresce, si muore. Ma del momento finale, della morte, meglio non parlarne, meglio non nominarla neanche, meglio far finta che non esista e continuare ad illudersi di allontanarla fino all’inevitabile. La morte, quantomeno nella società occidentale, rimane uno dei grandi tabù continuando ad essere un concetto scomodo che incute paura perché ricorda l’essere precari in questo mondo. La morte viene vista come qualcosa che accade, non la si accetta come qualcosa di inevitabile, come naturale compimento della vita di una persona; così tutto ciò che opera o si avvicina ad essa diventa funesto, inquietante, macabro e nella percezione sociale anche la professione di necroforo si macchia di portatore di malasorte.
Il progetto fotografico affronta questa tematica che certamente disorienta e crea un certo imbarazzo iniziale nell’osservatore.
“Quando si muore torniamo tutti ad essere stelle. Il mio lavoro è restituire queste stelle cadenti, con la loro scia luminosissima, all’eterno ciclo della materia.” dice Simona Sassano all’autrice. Abituati ad un mestiere a prevalenza maschile scopriamo che la protagonista è una donna di professione necrofora e tanatoesteta. Le sue parole lasciano trasparire quale sia il delicato compito e con quale dedizione amorevole esso sia diventato la sua missione: accudire ed inoltre rendere la salma esteticamente più dignitosa possibile per alleviare ai parenti l’ultimo saluto.
Le nove immagini “non ritraggono” ma sicuramente originano e alimentano la storia nella nostra mente. Il tema del racconto prevale infatti sull’aspetto più propriamente estetico/fotografico e le inquadrature semplici lasciano spazio alla ricezione di quei segni che ogni sensibilità e conoscenza in codificazione porta a divenire significati. Sorprende come l’autrice non mostri nelle immagini alcun coinvolgimento. Probabile che celi volutamente la propria emotività fotografando intenzionalmente in maniera oggettiva, spingendosi in un ambito evidentemente descrittivo dove palese è il mantenere anche visivamente una distanza da tutto, da Simona, dai luoghi del suo lavoro, dalla morte. C’è, nelle foto, sempre un vuoto fisico per ampiezza di inquadratura o per assenza materiale che, come un cuscinetto ammortizzante, si contrappone alla presenza assoluta della protagonista. Quel vuoto è lo spazio ampio davanti al luogo cimiteriale, è l’assenza nelle sedie davanti a Simona e nelle lapidi ancora non “abitate”, torna ad essere spazio ampio attorno alla figura fiera della protagonista, diviene distanza di rispetto nella camera ardente per concludersi nel vuoto assoluto dello spazio attraversato dalla stella. Forse, questo distacco, questa prova di assoluta oggettività, permette all’autrice di ricondurre l’immagine fotografica alla realtà di ciò che rappresenta, il vuoto incolmabile della perdita di una persona cara e Simona diventa la via d’accesso a questo spazio di silenzio e rispetto per una conoscenza scevra da condizionamenti e pregiudizi.