Liturgia di un dolore
Testo di di Claudia Ioan
“So guadare il Dolore -”, scriveva nell’Ottocento Emily Dickinson. In questo breve verso, la poetessa americana interrompeva l’immagine evocata con un trattino, creando un frammento pervaso di un sentire acuto, profondo, sospendendoci proprio nel momento dell’elaborazione del dolore stesso, facendocelo visualizzare, facendocene sentire l’intensità. Analogamente, nel buio del dolore contemplato da Carmela Mansi Difrancesco per la perdita incomprensibile di una persona cara nel fiore dei suoi anni, si innesca il processo creativo, al contempo artistico e terapeutico, che non può curare la sofferenza ma può contribuire a farla attraversare.
L’autrice traduce quella sofferenza in un susseguirsi di immagini liriche - il suo personale guado del dolore. Il suo sguardo trasfigura la realtà che la circonda: ogni scorcio, ogni cielo, ogni ostinata manifestazione di vita della natura, resi evocativi da un bianco e nero potente, si intrecciano a poeticità e metafore; qui, nella voragine dell’anima, prendono forma le ombre, i voli, i dettagli che rimandano all’eternità.
La natura sembra ribadire e insieme combattere l’assenza rimandando l’eco della presenza, a tratti volatile e inafferrabile come un bagliore, a volte invece intrisa di perpetuità in gesti universali, come le mani intrecciate o lo sguardo abbassato di una statua scolpita nella pietra. Di fotografia in fotografia, la luce si irradia nell’oscurità del mondo e plasma il paesaggio interiore dell’autrice, imprimendo autenticità emotiva a visioni che si traducono in raffinata elegia.
C’è una forma di preghiera, di ringraziamento per l’incontro che la vita ha concesso, e l’incredulità di essere lasciati soli, privi della presenza di chi abbiamo perduto che pure trova il modo di scolpirsi, perfino nell’effimero. Tra un transito di nubi e una breve fioritura, si crea continuamente nuovo spazio per un ricordo indelebile, che affiora ovunque e si espande in modo dolente.
Non vi è mai orizzonte nelle fotografie che compongono l’opera: vi sono quasi ovunque sfondi pieni che lo impediscono, o cieli che ormai lo negano in terra: non è più raggiungibile. Eppure, l’opera crea un respiro, intimo, personale, necessario: è una forma di omaggio e un’urgenza espressiva che si fondono. In Liturgia di un dolore, opera composta da fotografie e alcuni toccanti versi, si scorgono infatti i variegati fili che legano l’autrice alla persona cara perduta e alle sue passioni, condivise da entrambe: la parola scritta e naturalmente la fotografia stessa. Non a caso, l’ultima immagine dell’opera diverge dalle altre: si tratta di un vero e proprio tributo a chi non c’è più, ma che ha lasciato il suo sguardo ben visibile sul supporto materico delle sue Polaroid. Simbolicamente, l’immagine istantanea - l’unica con una sua profondità - ci racconta un viaggio interrotto prematuramente e rappresenta un lascito il cui valore è custodito da chi resta.